Musicisti, tossicodipendenza e… narrazione dell’uso

Uno dei generi che più si è confrontato con il tema delle sostanze (e che viene associato alle sostanze) è il rap. Negli ultimi anni, il rap si è trasformato profondamente: fino a poco tempo fa la visione della salute mentale era profondamente distorta, la malattia mentale era stigmatizzata come segno di debolezza e nei testi non se ne faceva mai menzione. L’uso di sostanze serviva come mezzo per muoversi in un contesto che richiedeva di essere sempre più brutto, sporco e criminale. Ovviamente il consumo di sostanze (accettato socialmente) forniva, come effetto collaterale, la possibilità di trovare una soluzione a sofferenze che non si potevano nominare esplicitamente, pena la stigmatizzazione.


Com’è cambiata la narrazione della salute mentale e dell’uso delle sostanze nel rap?

Da qualche anno siamo di fronte ad una fase conscious, dove gli stessi rapper si stanno aprendo al racconto delle proprie difficoltà relative alla salute mentale e le sostanze entrano profondamente nella narrazione con un valore terapeutico. A differenza delle generazioni del rock psichedelico dove le sostanze servivano per espandere i confini della mente, sconfiggere il patriarcato e l’autorità del senso di colpa, oggi le sostanze psichedeliche (LSD, 2cb, DMT) servono per guardarsi dentro, per auto-analizzarsi, per riparare quelle ferite, quelle fragilità che sono insopportabili. Ed è proprio in questa nuova fase del rap che ritroviamo tali contenuti, dentro i testi delle canzoni e nelle immagini dei videoclip musicali.

L’artista parla delle proprie fragilità, racconta di momenti difficili ed esplicita una sofferenza mentale nel proprio testo; a volte viene mostrato esplicitamente l’uso di sostanze nei videoclip. Viene messa in narrazione, con la musica, la propria biografia.


Esempi recenti: “Persona” di Marracash e “Mezzanotte” di Ghemon

Pensiamo, come esempi recenti, all’album “Persona” di Marracash e all’album “Mezzanotte” di Ghemon. Non solo nei testi delle canzoni, ma anche nelle interviste concesse all’uscita degli album, capiamo come la salute mentale e il tentativo di fronteggiare il proprio malessere sia stato un tema che questi artisti hanno deciso di far scorrere nei loro testi. Sia Marracash che Ghemon, prima della pubblicazione dei rispettivi ultimi lavori, erano saturi di soddisfazioni e riconoscimenti professionali. A livello pubblico la percezione era di due artisti all’apice delle rispettive carriere. Eppure, per entrambi, qualcosa a livello sottocutaneo, a livello psichico da tempo si stava muovendo in una direzione opposta. Ed entrambi raccontano di una battaglia durata una vita contro una sofferenza interiore, alla quale hanno cercato di fare fronte in vari modi, anche attraverso le sostanze, per poi arrivare a poterne parlare esplicitamente.


Qui si aprono due questioni molto importanti: una per il pubblico e una per l’artista…


Innanzitutto per il pubblico: fornire contenuti espliciti ad un pubblico di minori e/o con fragilità, possono portare a un riconoscimento profondo nelle narrazioni di quell’artista, ma senza contesto e il rischio di una spettacolarizzazione di quei comportamenti è dietro l’angolo. Pensiamo, ad esempio, al problema relativo all’abuso di Xanax che da circa tre anni coinvolge pesantemente le nuove generazioni. Il circolo che si instaura porta a far sì che la musica racconti comportamenti che diventano oggetto di emulazione, entrando nella vita quotidiana dei ragazzi, che crescendo in questi contesti diventeranno artisti che racconteranno di questi comportamenti: a questo punto, diventa difficile comprendere fin dove l’artista racconta la vita e dove, invece, la vita ripropone per emulazione quanto messo in musica.


La seconda questione riguarda l’artista il quale, oltre che raccontare, deve vendere un personaggio e riuscire a sfondare: salute mentale e sostanze diventano una questione di immagine. Sempre più vediamo comparire sulla scena artisti che portano personaggi all’estremo, all’eccesso, al limite (nel panorama italiano pensiamo ad Achille Lauro, Massimo Pericolo, Ketama 126). Sono artisti che si ritagliano la propria identità, il proprio territorio investendo sui tabù della nostra società. E così compaiono videoclip dove si mostrano palesemente situazioni di consumo o testi dove si parla di malattia mentale. A questo punto si apre una partita importantissima per i lavoratori della musica: cosa ne facciamo di questi contenuti e come li gestiamo quando, da oggetto artistico, diventano parte della vita quotidiana?


In tal senso, i musicisti e i professionisti del music business hanno una responsabilità elevata: ci troviamo così davanti alla possibilità di cominciare a fare cultura sulle sostanze e sulla salute mentale, utilizzando un linguaggio artistico.



Posto quindi che l’arte non debba essere sottoposta ad alcuna censura, è possibile creare contenuti artistici che parlino esplicitamente di sostanze e malattia mentale e contemporaneamente fare informazione e fornire contesti di salute?



La mia risposta è ed è attraverso la costruzione di una solida rete fra professionisti che ciò potrà avvenire.

Intanto qui mi sento di concludere provando a proporre alcuni miei tips per musicisti, produttori, manager, gestori di locali, genitori, insomma chiunque sia interessato a trattare il tema delle sostanze.


Tips per trattare il tema delle sostanze


non nascondersi dietro ad un dito: le sostanze esistono e vengono consumate. Se si invita a suonare un artista che di sostanze parla esplicitamente non possiamo fingere che non avverrà un contestuale consumo. Girare la testa da un’altra parte peggiora la situazione e crea pericolo certo, laddove poteva esserci solo rischio.


le sostanze e la salute mentale non riguardano solo l’artista. Quando si decide di vendere un prodotto che parla di determinate tematiche, tutto il sistema si assume la responsabilità di quelle tematiche, ogni lavoratore per il livello che gli compete, nessuno escluso.


diventiamo consapevoli del fatto che un musicista è un’icona e i comportamenti degli idoli vengono emulati. Questo potrà portare un giovane a provare una sostanza. Ma la tossicodipendenza per svilupparsi richiede molte altre concause e non arriva per gioco e nemmeno per caso. L’artista è solo un tassello che coinvolge molti altri aspetti della vita di una persona.


ogni luogo è giusto per parlare di questi temi, a patto che si calibri la comunicazione dandovi il giusto spazio. Se si ritiene importante ciò di cui andiamo a parlare, onoriamolo con uno spazio e un tempo che gli rendano dignità e accessibilità.


evitiamo di cadere nelle comunicazioni tipiche dell’era social, dove per farsi sentire si deve urlare più forte degli altri uno slogan ancora semplicistico e superficiale. Prendiamoci del tempo di cercare le giuste parole che permettano a tutti di poter cogliere il messaggio: se il messaggio è frutto di tempo e pensiero non potrà mai essere dannoso. Se, invece, è frutto dell’urgenza, allora sarà soltanto un’azione dettata da un impulso e, in quanto tale, carica di tutta la pericolosità delle azioni non pensate.


non potremo mai impedire l’uso di sostanze, ma possiamo sfruttare l’occasione per imparare a conoscerle e ad usarle nel modo meno dannoso possibile.



di Federico Buffagni