Musicisti, tossicodipendenza e… ansia da prestazione

Anche senza bisogno di raggiungere la fama, la vita del musicista è profondamente usurante.


Oltre alle lunghe ore di pratica tipica della carriera musicale, ci sono anche diversi requisiti impliciti della professione che possono creare disagio, come lavorare su turni, essere disponibili a viaggiare per le esibizioni, lasciare la famiglia durante i tour, adattarsi al fuso orario, affrontare l’instabilità finanziaria. In questo senso, l’angoscia psicologica vissuta dalla maggior parte dei musicisti è ampia e si associa a sintomi di ansia, depressione e ansia da prestazione musicale (MPA), quest’ultima legata alle esigenze del pubblico e del musicista.

Uno studio di Barbar et al. (2014) ha mostrato che il 19% di un campione di 230 musicisti aveva indicatori di ansia sociale, il 20% di depressione e il 24% di MPA. In uno studio precedente, Kenny et al. (2014) hanno anche identificato un modello significativo di indicatori di depressione (32%), ansia sociale (33%) e stress post-traumatico (22%) tra i membri della Australian Symphony Orchestra, suggerendo che la condizione medica e psicologica del musicista è indipendente dalla cultura e dalla formazione musicale. È inoltre possibile evidenziare altre condizioni cliniche associate alla carriera del musicista, come problemi legati al sonno e all’uso di sostanze. Pereira et al. (2010) hanno condotto uno studio sulla qualità del sonno nei musicisti classici e hanno scoperto che il 71% dei partecipanti aveva una scarsa qualità del sonno, che sembra essere associata a dolore e disagio fisico.


Soprattutto il consumo di sostanze sembra essere la strategia di coping più utilizzata per affrontare la PMA o ansia da palcoscenico.


Sono note le storie di musicisti molto famosi che hanno un uso di sostanze legato all’atto del salire sul palco. Ma se ci fermiamo a riflettere un momento, praticamente da ogni musicista abbiamo sentito dire frasi come: “se bevo una birretta suono meglio”, “un bicchiere e sono pronto”. L’alcol come è noto abbassa drasticamente l’ansia e consente di sentirsi più rilassati, disinibiti, comunicativi. Le conseguenze sono però pericolose in quanto, al di là della tossicità, si affida ad un elemento esterno a sé stessi la capacità di regolare i propri stati interni: ciò può significare che la persona non si sente capace di autoregolarsi e non ha sufficiente fiducia nelle proprie capacità di poter fronteggiare la situazione. Da recenti studi (Papageorgi et al., 2013; Pereira et al. 2010) sappiamo che la popolazione più colpita da ansia da palcoscenico sono i musicisti classici, ma nessun musicista è escluso.

L’ansia prima di salire sul palco è comune a ogni musicista ed è importante imparare a riconoscerla come un’alleata che può farci lavorare al meglio (se tenuta sotto controllo).

Eliminarla significherebbe ignorare un prezioso segnale di come vanno le cose dentro di noi.


Spesso, infatti, tendiamo a vedere l’ansia come un sintomo da eliminare, quando invece è un indicatore che ci può aiutare ad individuare e comprendere qualcosa in più sul nostro funzionamento. Per affrontare l’ansia da palcoscenico al meglio è fondamentale confrontarsi con un esperto che aiuterà l’artista ad esercitarsi con specifiche strategie di coping da applicare in tre momenti cruciali: a casa durante lo studio, prima di salire sul palco e quando si trova direttamente sul palco.

In generale, però, ci sono piccole azioni che tutti noi facciamo quotidianamente e che ci possono aiutare a ripristinare in maniera rapida il contatto con noi stessi. Queste possono essere un primo passo per migliorare la conoscenza della nostra ansia e imparare a tenerla sotto controllo:

☞ stabilire routine (mangiare e dormire con regolarità, fare esercizio)

☞ ritagliarsi del tempo libero per sé stessi

☞ scrivere liste e piani di azione

☞ ricordarsi di respirare e ascoltare esclusivamente il proprio respiro

riportare attenzione laddove abbiamo inserito il “pilota automatico” (es. quando guidiamo, puliamo, scriviamo messaggi, ecc.)

☞ avere persone con cui parlare

Il consiglio migliore su tutti, però, è quello di concedersi momenti con esperti che aiutino ad esplorare creativamente quegli aspetti di sé che vengono elicitati dal fare musica e a trovare le strategie individualizzate più adeguate.

Bibliografia

  • Barbar, A. E., Crippa, J. A. & Osório, F. L. (2014). Parameters for screening music performance anxiety. Revista Brasileira De Psiquiatria, 36(3), 245-247.  
  • Kenny, D., Driscoll, T., & Ackermann, B. (2014). Psychological well-being in professional orchestral musicians in Australia: A descriptive population study. Psychology of Music42(2), 210-232.
  • Papageorgi, I., Creech, A., & Welch, G. (2011). Perceived performance anxiety in advanced musicians specializing in different musical genres. Psychology of Music, 41(1), 18-41.
  • Pereira, Érico Felden, Teixeira, Clarissa Stefani, Kothe, Fausto, Merino, Eugenio Andrés Díaz, & Daronco, Luciane Sanchotene Etchepare. (2010). Percepção de qualidade do sono e da qualidade de vida de músicos de orquestra. Archives of Clinical Psychiatry (São Paulo), 37(2), 48-51.


di Federico Buffagni

Musicisti, tossicodipendenza e… gestione della fama

Capita di leggere sui giornali, come di recente Ed Sheeran, di musicisti che dichiarano come l’uso di sostanze (soprattutto alcol) nasca in correlazione diretta con il raggiungimento della fama.



Per un effetto paradossale,
laddove si raggiungono le vette tanto agognate, subentra un crollo psicologico.


La sindrome dell’impostore (di cui abbiamo parlato in questo topic) e l’aumento della fama sono i primi fattori scatenanti il crollo e il conseguente uso di sostanze per farvi fronte. Un recente studio (Epstein & Epstein, 2013) ha mostrato come le persone famose – rispetto alle persone non famose – abbiano un rapporto più stretto con farmaci “ricreativi” e droghe psicoattive, che vengono considerate come strategie per fronteggiare lo stress correlato alla fama. Inoltre il consumo di alcol e tabacco, nella categoria dei famosi, è praticamente la regola.

Spesso commettiamo l’errore di pensare solo al lato positivo della fama senza considerare i cambiamenti che essa provoca agli stili di vita: la mancanza improvvisa di privacy, il senso di isolamento e solitudine, lo scoprire che forse il successo non è così magico come si pensava. A questo punto, le persone si ritrovano a cercare modi per affrontare tali cambiamenti improvvisi e, tra i più conosciuti e accessibili, ci sono sicuramente l’(ab)uso di droghe e alcol, che in realtà non fanno altro che aumentare il senso di insoddisfazione e difficoltà.


La notorietà sembra attraversare sempre alcune fasi specifiche


Il desiderio di diventare famosi spinge e motiva al successo. Quando si riesce nell’intento, comincia una fase dove l’artista inizia ad affermarsi fra la gente e nel mondo dei media. L’invasione della privacy della persona è già iniziata, ma l’eccitazione e la passione per il successo raggiunto non permettono di coglierla.


☛ Qui nasce il paradosso: da un lato l’artista, ormai famoso, vorrebbe allontanarsi dall’attenzione pubblica, mentre dall’altro avverte una dipendenza dallo status e dal potere raggiunto. In questa fase è cruciale poter trovare un equilibrio fra vita privata e rapporto con il pubblico, distinguere il proprio personaggio (prodotto di vendita) dalla propria persona.


☛ L’ultima fase è quella dove a tutti i costi si cerca un cambio di stile per potersi adattare alla nuova vita. Senza aiuto o sostegno, nella solitudine percepita, spesso è qui che si innestano le dipendenze come strategia per fronteggiare il nuovo stile di vita. Con il giusto aiuto è possibile, invece, avviare una ricerca di un nuovo equilibrio che porti l’artista ad adottare uno stile di vita salutare.

Bibliografia

Epstein, C.R., Epstein, R. J. (2013). Death in The New York Times: the price of fame is a faster flame, QJM: An International Journal of Medicine, Volume 106, Issue 6, Pages 517–521.



di Federico Buffagni

Musicisti, tossicodipendenza e… narrazione dell’uso

Uno dei generi che più si è confrontato con il tema delle sostanze (e che viene associato alle sostanze) è il rap. Negli ultimi anni, il rap si è trasformato profondamente: fino a poco tempo fa la visione della salute mentale era profondamente distorta, la malattia mentale era stigmatizzata come segno di debolezza e nei testi non se ne faceva mai menzione. L’uso di sostanze serviva come mezzo per muoversi in un contesto che richiedeva di essere sempre più brutto, sporco e criminale. Ovviamente il consumo di sostanze (accettato socialmente) forniva, come effetto collaterale, la possibilità di trovare una soluzione a sofferenze che non si potevano nominare esplicitamente, pena la stigmatizzazione.


Com’è cambiata la narrazione della salute mentale e dell’uso delle sostanze nel rap?

Da qualche anno siamo di fronte ad una fase conscious, dove gli stessi rapper si stanno aprendo al racconto delle proprie difficoltà relative alla salute mentale e le sostanze entrano profondamente nella narrazione con un valore terapeutico. A differenza delle generazioni del rock psichedelico dove le sostanze servivano per espandere i confini della mente, sconfiggere il patriarcato e l’autorità del senso di colpa, oggi le sostanze psichedeliche (LSD, 2cb, DMT) servono per guardarsi dentro, per auto-analizzarsi, per riparare quelle ferite, quelle fragilità che sono insopportabili. Ed è proprio in questa nuova fase del rap che ritroviamo tali contenuti, dentro i testi delle canzoni e nelle immagini dei videoclip musicali.

L’artista parla delle proprie fragilità, racconta di momenti difficili ed esplicita una sofferenza mentale nel proprio testo; a volte viene mostrato esplicitamente l’uso di sostanze nei videoclip. Viene messa in narrazione, con la musica, la propria biografia.


Esempi recenti: “Persona” di Marracash e “Mezzanotte” di Ghemon

Pensiamo, come esempi recenti, all’album “Persona” di Marracash e all’album “Mezzanotte” di Ghemon. Non solo nei testi delle canzoni, ma anche nelle interviste concesse all’uscita degli album, capiamo come la salute mentale e il tentativo di fronteggiare il proprio malessere sia stato un tema che questi artisti hanno deciso di far scorrere nei loro testi. Sia Marracash che Ghemon, prima della pubblicazione dei rispettivi ultimi lavori, erano saturi di soddisfazioni e riconoscimenti professionali. A livello pubblico la percezione era di due artisti all’apice delle rispettive carriere. Eppure, per entrambi, qualcosa a livello sottocutaneo, a livello psichico da tempo si stava muovendo in una direzione opposta. Ed entrambi raccontano di una battaglia durata una vita contro una sofferenza interiore, alla quale hanno cercato di fare fronte in vari modi, anche attraverso le sostanze, per poi arrivare a poterne parlare esplicitamente.


Qui si aprono due questioni molto importanti: una per il pubblico e una per l’artista…


Innanzitutto per il pubblico: fornire contenuti espliciti ad un pubblico di minori e/o con fragilità, possono portare a un riconoscimento profondo nelle narrazioni di quell’artista, ma senza contesto e il rischio di una spettacolarizzazione di quei comportamenti è dietro l’angolo. Pensiamo, ad esempio, al problema relativo all’abuso di Xanax che da circa tre anni coinvolge pesantemente le nuove generazioni. Il circolo che si instaura porta a far sì che la musica racconti comportamenti che diventano oggetto di emulazione, entrando nella vita quotidiana dei ragazzi, che crescendo in questi contesti diventeranno artisti che racconteranno di questi comportamenti: a questo punto, diventa difficile comprendere fin dove l’artista racconta la vita e dove, invece, la vita ripropone per emulazione quanto messo in musica.


La seconda questione riguarda l’artista il quale, oltre che raccontare, deve vendere un personaggio e riuscire a sfondare: salute mentale e sostanze diventano una questione di immagine. Sempre più vediamo comparire sulla scena artisti che portano personaggi all’estremo, all’eccesso, al limite (nel panorama italiano pensiamo ad Achille Lauro, Massimo Pericolo, Ketama 126). Sono artisti che si ritagliano la propria identità, il proprio territorio investendo sui tabù della nostra società. E così compaiono videoclip dove si mostrano palesemente situazioni di consumo o testi dove si parla di malattia mentale. A questo punto si apre una partita importantissima per i lavoratori della musica: cosa ne facciamo di questi contenuti e come li gestiamo quando, da oggetto artistico, diventano parte della vita quotidiana?


In tal senso, i musicisti e i professionisti del music business hanno una responsabilità elevata: ci troviamo così davanti alla possibilità di cominciare a fare cultura sulle sostanze e sulla salute mentale, utilizzando un linguaggio artistico.



Posto quindi che l’arte non debba essere sottoposta ad alcuna censura, è possibile creare contenuti artistici che parlino esplicitamente di sostanze e malattia mentale e contemporaneamente fare informazione e fornire contesti di salute?



La mia risposta è ed è attraverso la costruzione di una solida rete fra professionisti che ciò potrà avvenire.

Intanto qui mi sento di concludere provando a proporre alcuni miei tips per musicisti, produttori, manager, gestori di locali, genitori, insomma chiunque sia interessato a trattare il tema delle sostanze.


Tips per trattare il tema delle sostanze


non nascondersi dietro ad un dito: le sostanze esistono e vengono consumate. Se si invita a suonare un artista che di sostanze parla esplicitamente non possiamo fingere che non avverrà un contestuale consumo. Girare la testa da un’altra parte peggiora la situazione e crea pericolo certo, laddove poteva esserci solo rischio.


le sostanze e la salute mentale non riguardano solo l’artista. Quando si decide di vendere un prodotto che parla di determinate tematiche, tutto il sistema si assume la responsabilità di quelle tematiche, ogni lavoratore per il livello che gli compete, nessuno escluso.


diventiamo consapevoli del fatto che un musicista è un’icona e i comportamenti degli idoli vengono emulati. Questo potrà portare un giovane a provare una sostanza. Ma la tossicodipendenza per svilupparsi richiede molte altre concause e non arriva per gioco e nemmeno per caso. L’artista è solo un tassello che coinvolge molti altri aspetti della vita di una persona.


ogni luogo è giusto per parlare di questi temi, a patto che si calibri la comunicazione dandovi il giusto spazio. Se si ritiene importante ciò di cui andiamo a parlare, onoriamolo con uno spazio e un tempo che gli rendano dignità e accessibilità.


evitiamo di cadere nelle comunicazioni tipiche dell’era social, dove per farsi sentire si deve urlare più forte degli altri uno slogan ancora semplicistico e superficiale. Prendiamoci del tempo di cercare le giuste parole che permettano a tutti di poter cogliere il messaggio: se il messaggio è frutto di tempo e pensiero non potrà mai essere dannoso. Se, invece, è frutto dell’urgenza, allora sarà soltanto un’azione dettata da un impulso e, in quanto tale, carica di tutta la pericolosità delle azioni non pensate.


non potremo mai impedire l’uso di sostanze, ma possiamo sfruttare l’occasione per imparare a conoscerle e ad usarle nel modo meno dannoso possibile.



di Federico Buffagni